Formazione

La dura storia di Giancarlo S. Non c’è posto per lui

Diritti negati. Giancarlo è stato vittima di disagio psichico da bambino. Poi sono arrivati errori dei medici, oggi ha 44 anni e solo due volontari da ben 22 anni lo aiutano a vivere.

di Barbara Fabiani

Buon compleanno Giancarlo. Se solo potessimo farti gli auguri senza sentirci il cuore così pesante a guardarti lì, abbandonato sulle lenzuola e con la sedia a rotelle vuota accanto al letto. Hai compiuto 44 anni il 21 febbraio e li hai festeggiati parcheggiato in una clinica di riabilitazione, dove in due mesi non hai cominciato neanche a sollevare un braccio. Dicono perché la tua mente disturbata non ti fa fare progressi. Come ci sei finito lì? Era un bambino sano, Giancarlo, un neonato come tutti gli altri, con il solo imperdonabile difetto di essere nato da una madre nubile, e nel 1958 nella provincia campana questo non era un difetto da poco. La madre, una trentenne con poveri strumenti culturali, fuggì dal paese e dalla colpa, lo lasciò a una balia e andò a fare la cameriera a ore a Roma. Poteva essere un bambino sano, Giancarlo, ma a otto anni smise di parlare: da un angolo della stanza fissava la balia tenendosi dentro un livore che non sapeva esprimere e la sua protesta se la sigillò tra le labbra. Una mattina, il nonno Fu affidato a un istituto psichiatrico (ritardo mentale, fu quello che lessero i medici in quel silenzio), e una mattina il nonno, illanguidito da un pensiero magnanimo per la figlia, lo andò a trovare e decise di portarselo via. Un nipotino proprio normale non poteva esserlo, ma riprese a parlare e cominciò ad andare a scuola; fino ai 17 anni fece una vita da scemo del villaggio, ma era una bella vita, con i paesani, gli amici e il nonno che aveva scoperto di volergli bene. Ma nessun progresso nella vita di Giancarlo è mai durato a lungo. La morte del nonno lo riportò, quasi adulto, davanti a una donna che della maternità aveva solo assaggiato l?amaro. Poteva essere un rapporto senza traccia di rancore? I limiti di Giancarlo si trasformarono in manie e in qualunque modo fosse insorto il suo disagio mentale, ormai era parte di lui. Fino a quando, in un momento della sua vita in cui la sfortuna si era fermata a riprendere fiato, Giancarlo incontrò Enzo, un vicino di casa che aveva un figlio con handicap mentale, e attraverso di lui conobbe l?associazione Capodarco a Roma e Maria Giovanna, l?operatrice che lo prese a cuore e lo inserì in un programma di avviamento al lavoro. Aveva 21 anni, ne passò altri cinque a fare tirocini e una domenica del 1986, la giornata più bella della sua vita, seppe che c?era un posto di lavoro per lui all?Ospedale San Giovanni di Roma. Giancarlo diceva che era bello portare a casa uno stipendio come le altre persone ed essere d?aiuto alla madre, ma certe giornate sul lavoro erano difficili da affrontare. Qualche scherzo pesante di pochi insensibili ma fatali colleghi, il suo armadietto più volte aperto, e la madre che scelse di non intervenire; tornarono più forti di prima il nervosismo, l?aggressività, l?ansia. «Da sola non ce la faccio», disse la madre, e si rivolse al Centro di igiene mentale. Poteva andare bene: una diagnosi e farmaci per alleviare il disagio di entrambi. Un giorno Giancarlo tornò a casa dall?ambulatorio con una fiala in mano: «Il dottore ha detto che devo fare questa iniezione», lei gliela fece e un?ora dopo lui entrò in stato catatonico. Lo stesso dosaggio l?aveva fatto quella mattina, la fiala era la dose del mese successivo. Sprofondò in coma e per molto tempo rimase ricoverato subendo cure molto pesanti. Solo Enzo e Giovanna A vederlo così indifeso, la madre, che avrebbe avuto bisogno di aiuto come il figlio, lo vezzeggiò col cibo e lo soffocò di riscoperto amore. E Gianfranco si riprese. Tornò a lavoro, anche se non aveva più la lucidità di prima e fu trasferito a mansioni più semplici e marginali. Poi, circa un anno e mezzo fa, una mattina trovò la mamma morta nel letto. Al suo funerale ricomparvero i parenti, ma quel nipote era un peso inaccettabile. A Gianfranco, tranne le attenzioni saltuarie di una zia, restarono solo Enzo e Maria Giovanna, che gli trovò un posto in una casa famiglia della Comunità di Capodarco. Ogni tanto, tornando dal lavoro, perdeva la strada e la polizia lo ritrovava sempre sulla via in direzione del cimitero dove è sepolta la madre. Una di quelle volte, mentre vagava in circolo puntando verso quella tomba come fosse un punto cardinale, viene travolto da un furgone. Epilogo con un che di comico? Si pensi che è tutto vero, e passa subito il sorriso. I medici dell?ospedale dove lavorava lo curano con una tenacia da fondisti e gli salvano la vita. In quel suo tragico zigzagare verso il fondo di una discesa, c?è ancora una possibilità per Giancarlo. Un serio programma fisioterapico avviato il prima possibile potrebbe rimetterlo in piedi, o almeno su una sedia a rotelle, e poi Maria Giovanna, ancora lei, avrebbe potuto trovargli un?altra casa famiglia, una nuova vita. Ma questa speranza si arena. Il Medical Corner, il centro fisioterapico dell?ospedale San Giovanni, non lo accetta perché riconosce che la struttura non è in grado di trattare casi così impegnativi e poi ammette di essere piena di letti occupati sine die da ultraottantenni che i figli non vogliono riportare a casa. La Clinica riabilitativa Santa Lucia si occupa di traumi spinali e neurologici, anzi denuncia la mancanza di posti letto per post comatosi, e i servizi sperimentali che ha avviato implicano comunque un ruolo attivo dei familiari. Il caso in questione, quindi, non risponde ai requisiti. Ogni clinica ha le sue ragioni per dire no, e poi c?è la dura legge della fisioterapia che vuole che si intervenga solo sui casi per cui valga la pena. Che si può fare per un malato psichiatrico, che si agita e impreca, e certo non collabora come un giovanotto di vent?anni? Ma a questa si aggiunge un?altra cruda verità, che non si vuol dire: un malato in quelle condizioni e senza famiglia è un paziente a rischio di rimanere a carico della clinica, gratuitamente, dopo i primi 60 giorni pagati dal sistema sanitario. Per un lungo, intero anno le cliniche si sono rimbalzate come una palla la richiesta di aiuto di Giancarlo, che è rimasto ad aspettare nel letto dell?ospedale. Intanto Maria Giovanna combatteva per lui e il suo diritto alle cure riabilitative, terrorizzata all?idea che qualcuno potesse risolvere sbrigativamente il caso indirizzando quest?uomo di soli 44 anni in un istituto di lunga degenza, a morire di piaghe da decubito. Adesso, da due mesi, Giancarlo è fermo in un altro letto nella clinica Villa Fulvia. Finalmente accudito ma non curato: perché lui non collabora, dicono i medici. La voglia di uscire «Come stai Giancarlo?», «Non lo so», ripete e aggiunge: «Non ce la faccio più a stare qui». Giancarlo non sempre risponde ai fisioterapisti ma la sua volontà di guarire non è scomparsa, forse è nascosta sotto un silenzio di protesta. Forse bisognerebbe ricominciare da lì. Chi gli ha negato il diritto alla riabilitazione l?ha fatto appellandosi alla difficoltà del suo caso, alla depressione di Giancarlo che dovrebbe invece essere una ragione in più per aiutarlo. La Regione Lazio non si è ancora resa conto che ci sono casi come quello di Giancarlo che meritano strutture adeguate; il Comune di Roma , da parte sua, confessa di non avere una collocazione adatta a lui. Restano solo Enzo e Maria Giovanna di Capodarco che, da semplici volontari, lo seguono da ben 22 anni e che non ti guardano in faccia quando ammettono, a mezza voce, di sentirsi un po? stanchi. Noi crediamo che Giancarlo abbia il diritto di avere infine riconosciuto il suo posto tra di noi. Auguri Giancarlo. Capodarco La comunità di Capodarco prende il nome dalla piccola frazione di Fermo, cittadina della regione Marche, dove nel 1966 un gruppo di disabili decise di uscire dall’emarginazione e con alcuni giovani volontari iniziò un nuovo percorso di vita in una villa abbandonata, per lavorare e costruirsi un futuro. Nel 1971, un nucleo di loro si trasferì a Roma dove diede il via ad un complesso di esperienze. Oggi, Capodarco è presente in 10 regioni con 14 gruppi, oltre 500 soci e ad essa si rivolgono circa settemila persone l’anno. Inoltre, ha in atto progetti di cooperazione internazionale verso quei Paesi dove l’handicap subisce un grave isolamento. Per aiutare Giancarlo Salerno chiediamo all’assessore alla Sanità del Lazio, Vincenzo Saraceni ed all’assessore romano agli Affari sociali, Raffaella Milano, di rispettare i suoi diritti alla riabilitazione. Inviate un’e-mail all’indirizzo sottostante: emporiosociale@capodarco.it


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